Accademia Peloritana dei Pericolanti

Storia dell'Accademia

Vicende di un cenacolo culturale tra XVIII e XXI secolo:

l’Accademia Peloritana dei Pericolanti di Messina

 

1. «Inter utramque viam Periclitantes». Alle origini dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti, di Daniela Novarese

 

2. Note su alcuni «Periclitantes» e sui loro «Discorsi» (secc. XVIII-XIX), di Maria Concetta Basile

 

3. Sulle orme di Muratori. Riflessi del riformismo settecentesco nell’orazione su «La necessità di un nuovo codice di leggi» (1788) del socio Nunzio Minasi, di Carmen Trimarchi

 

4. Accademia Peloritana dei Pericolanti e Università degli Studi a Messina fra Otto e Novecento, di Patrizia De Salvo

 

5. 1918-1945: l’Accademia Peloritana dei Pericolanti fra le due guerre, di Enza Pelleriti

 

6. Le vicende più recenti, di Vittoria Calabrò

 

Bibliografia di riferimento

 

1. “Inter utramque viam Periclitantes”. Alle origini dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti

di Daniela Novarese

 

a. L’intervento di Ludovico Antonio Muratori e l’aggregazione all’Accademia dei Dissonanti di Modena.

 

Le vicende della costituzione dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti di Messina sono indissolubilmente legate a un personaggio simbolo del panorama accademico italiano (e non solo), del secolo XVIII, quel Ludovico Antonio Muratori il cui “buon gusto” sarebbe stato assunto a misura e cifra interpretativa di ogni ben organizzato cenacolo culturale. Se, infatti, l’atto di «aprobación a la Academia» data all’8 agosto del 1729, la costituzione di quel sodalizio risaliva a due anni prima.  Si colloca, infatti, nell’aprile del 1727, la lettera con la quale il messinese Paolo Aglioti, dottore di diritto e studioso di antiquaria, supportato da un gruppo di nobili cittadini interessati «a riunire i buoni ingegni di Messina nel…fine di cooperare all’incremento degli studii non solo letterarii…ma anche scientifici», si rivolgeva a Muratori perché i Periclitantes, che ormai rappresentavano una realtà di fatto all’interno del contesto urbano messinese, venissero aggregati all’Accademia dei Dissonanti di Modena. Paolo Aglioti, che, a partire dal 1737, col nome di Ardito, sarebbe diventato segretario perpetuo dei Periclitantes, in virtù delle sue buone relazioni col Muratori, riusciva, in quello stesso 1727, nel suo intento.

La storiografia ha da tempo messo a fuoco i durevoli legami fra le élites culturali siciliane del XVIII secolo e lo studioso modenese, testimoniati dalla fondazione a Palermo, già nel 1718 dell’Accademia del Buon Gusto, palese omaggio al Muratori, inaugurata nel settembre di quell’anno con l‘Oratio ad Siculos sive excursus varius rei litterariae praesertim Siculae, ad bonam mentem exercendam, del messinese Giacomo Longo. Sedici anni più tardi, lo stesso Longo, nell’intento di fondare un nuovo cenacolo elettivamente destinato allo studio delle scienze giuridiche e al loro sviluppo, insieme ad altri intellettuali isolani (Giovan Battista Caruso, Agostino Pantò), ne sottoponeva il progetto al Muratori, che lo trovava, tuttavia di difficile realizzazione.

Il Muratori, se non mancava di sottolineare la vulcanica attività degli studiosi siciliani, non esitava talvolta, come nel caso di alcuni scritti del canonico palermitano Antonino Mongitore, a prenderne le distanze e a stigmatizzarne un fervore religioso spesso fondato sulla superstizione. Con specifico riferimento alla città dello Stretto non può passare inosservata la circostanza per la quale, oltre che con Giacomo Longo e con lo sparuto gruppo d’intellettuali disponibili a sostenere, in Sicilia, il programma riformatore di Vittorio Amedeo II di Savoia (1713-1715), contro la tradizione espressa dal cosiddetto "partito spagnolo" incarnato proprio dal canonico Mongitore, sono noti e documentati i legami di Ludovico Muratori con altri esponenti di quella intellighentia messinese legata all’insegnamento dei neoterici nello Studium Messanae. Il riferimento è a Michelangelo Fardella di Trapani, seguace e allievo, a Messina, di Giovan Alfonso Borelli, e tra i primi componenti, nel 1683, della neonata Accademia dei Dissonanti di Modena. Scampato alla repressione antispagnola, Fardella, il cui nome compare in un indice dei rubelli messinesi costretti a lasciare la città dello Stretto abbandonata dai francesi, considerato uno dei primi divulgatori del pensiero di Cartesio, riparava proprio a Modena, dove avrebbe insegnato logica e matematica nel 16781-82, fisica e geometria nel 1682-83 e metafisica nel biennio successivo.    Egli raggiungeva così il fratellastro Tommaso, già lettore di umanità nello Studio messinese, membro dell’Accademia della Fucina e, dal 1679 precettore, a Modena, presso il marchese Bonifacio Rangoni, conoscente del Muratori. Esisteva, dunque, da tempo, una trama di relazioni fra Messina e la città emiliana nella quale, peraltro, l’antico Studium, nato intorno all’insegnamento del celebre Pillio da Medicina, nel 1175, aveva subito, come quello messinese, diverse traversie e aveva taciuto per lungo tempo, fino alla sua rifondazione, avvenuta nel 1682 e alla successiva autorizzazione imperiale concessa nel 1685. Forse tali circostanze, insieme a comprovati legami e rapporti di tipo personale, dovevano suscitare la simpatia dello stesso Muratori che, sollecitato da Paolo Aglioti,  nel rendersi disponibile a supportare la causa dell’aggregazione dell’Accademia Peloritana ai Dissonanti, il 25 aprile del 1727 scriveva, in risposta alla sollecitazione del nobiluomo messinese:

«Fò plauso al nobil genio di Lei … tutto intento a rimettere in codesta Città il gusto della buona letteratura. Gl’ingegni siciliani, ogni uno lo sa, dalla natura sortiscono un gran fuoco, e più degli altri son abili a far cose mirabili. Ma codesta riguardevolissima Città nelle disgrazie del secolo prossimo passato ha patito di troppo, anche per conto degli studj. Il rimettere in essa il buon gusto e l’emulazione non sarà che un’impresa nobilissima…».

con evidente allusione alla soppressione dello Studium Messanae avvenuta quarant’anni prima.

Circa un anno più tardi, il Muratori raccoglieva i frutti del suo impegno e poteva scrivere ad Aglioti, il 6 febbraio del 1728 «che si sarebbe fatta in breve l’aggregazione di codesta Accademia alla nostra» ed in effetti, di lì a un mese, il decreto di aggregazione era pronto e il presidente dei Dissonanti lo inviava al Senato messinese. In esso si affermava che, verificati i voti favorevoli dei soci,

«Peloritanam Academiam hoc est universos, ac singulos ipsius socios, Academiae Nostrae Dissonantium, unimus et aggregamus».

In assidua corrispondenza col Muratori, Paolo Aglioti, nel 1727, gli forniva «il testo della Historia Sicula di Bartolomeo di Neocastro, in verità assai infelicemente collazionato (fra l'altro, pur conoscendolo, non utilizzò adeguatamente il manoscritto più importante), che fu pubblicato, insieme con una sua modesta prefazione, nel tomo XIII dei Rerurum Italicarum Scriptores», nel quale volume lo stesso studioso modenese ricordava come le due Accademie fossero unite «perpetuo foedere et amicitia».

Il legame con i Dissonanti doveva perdurare inalterato nel tempo. In occasione della morte di Ludovico Antonio Muratori, avvenuta nel gennaio del 1750, l’Accademia messinese, grata a quello studioso, gli rendeva omaggio con una solenne Orazione. Ancora molti anni più tardi, appare significativa la presenza di alcuni Periclitantes ai festeggiamenti per il centenario della fondazione dell’Accademia modenese nel 1780, ricambiata da taluni componenti di quel cenacolo, arrivati nella città dello Stretto nel 1793, per partecipare, con propri componimenti, ad una solenne adunanza Per la statua di bronzo innalzata a Ferdinando IV.

 

b. La città dello Stretto nel XVIII secolo, uno spazio urbano senza Studium alla ricerca di nuove istituzioni culturali.

 

L’aggregazione dei Periclitantes al prestigioso cenacolo modenese imprimeva un’accelerazione all’iter di riconoscimento ufficiale delle loro attività. Gli Annali di Caio Domenico Gallo registrano puntualmente come l’8 agosto del 1729 si consentisse la fondazione, a Messina, di un’Accademia «all’uso delle più famose d’Italia, dove due volte il mese si facessero discorsi di belle Lettere, Filosofia, Morale e Naturale, Storia Sacra e Profana, Teologia Dommatica, Canonica, Matematica e Geografia, delle antiche Medaglie e Memorie, Giurisprudenza e Materie Cavalleresche».

Il 29 agosto di quello stesso anno il Senato peloritano deliberava di concedere «magnam aulam palatii senatorii praedicti» per le riunioni del neonato cenacolo. Tale sede doveva, tuttavia, essere abbandonata poco dopo per un’altra assai più prestigiosa, la «antecamera de esse palacio real», che veniva concessa dal vicerè conte de Quiros il 25 novembre del 1729.

Nasceva così, ufficialmente, la Periclitantes, Peloritana Regia Academia, con chiaro riferimento alla configurazione del territorio cittadino, circoscritto, da una parte, dai monti Peloritani e proteso, dall’altra, verso quel braccio di mare insidioso, ben rappresentato nel logo del cenacolo da un veliero che solca le acque agitate dello Stretto, rese ancora più infide dalla presenza dei mostri omerici Scilla e Cariddi, metafora, come lo stesso segretario Carlo Vitali doveva spiegare, del pensiero umano, sempre in bilico «fra varie difficoltà e controversie» nel difficile raggiungimento della Verità, e degli uomini di scienza, continuamente «inter utramque viam periclitantes».

La città di Messina si riappropriava dunque, nel primo trentennio di quel secolo XVIII caratterizzato in tutta Europa da una rinnovata ansia di riforme, di un nuovo spazio culturale, simbolo di un acceso desiderio di rinascita, dopo le vicende legate alla rivolta antispagnola degli anni 1674-1678. Si ricordi, infatti che, proprio a seguito degli esiti di quell’evento, la città si trovava a subire gli effetti pesantissimi della repressione spagnola. Dichiarandola, con un decreto dell’8 gennaio del 1679, muerta civilmente, il vicerè Francisco de Benavides, conte di Santisteban, ne abrogava tutti gli antichi e numerosi privilegi, decapitava l’elité politica cittadina abolendo il Senato, espressione della mastra delle famiglie più in vista e disponeva la chiusura dello Studium, fondato dalla Compagnia di Gesù nel 1548, che proprio nel Seicento maturo viveva la sua stagione più significativa, accusato di aver supportato il disegno politico antispagnolo, ordito dalle locali classi dirigenti.  In quell’occasione l’azione del conte di Santisteban aveva inteso punire duramente la città privandola delle istituzioni identitarie, l’Università e il Senato; medesima sorte subisce l’Accademia della Fucina che, insieme ad altri cenacoli culturali, era nata a Messina, seguendo il gusto e la moda dei tempi.

Era, dunque, uno spazio urbano senza Studium, rimasto privo di significativi centri culturali quello nel quale, per le vicende che si sono prima ricordate, si ponevano le premesse per la fondazione dell’Accademia dei Periclitantes, l’unica, fra le tante sorte nella città dello Stretto, a giungere fino a noi.

 

c. La fisionomia dell’Accademia attraverso le redazioni statutarie del XVIII e del XIX secolo. Qualche esemplificazione.

 

Ottenuta l’autorizzazione e forte della prestigiosa aggregazione ai Dissonanti, l’Accademia dei Pericolanti, presieduta da Andrea Minutolo, detto il Tranquillo, iniziava la propria attività e, preliminarmente, in quello stesso anno 1729, si dava degli Statuti, che in 22 punti, ne delineavano l’originaria organizzazione. In particolare, quel testo prevedeva l’elezione di un Principe, nonché di due Promotori «ogni anno» e di un segretario la cui carica era vitalizia, nonché la convocazione di due adunanze mensili cui se ne aggiungevano quattro straordinarie da tenersi «nella solennità della Sacra Lettera, negli Anniversari delle Nascite degli Augustissimi Nostri Monarchi e in un giorno della Settimana di Passione per la morte del Redentore». Argomento dei discorsi accademici sarebbero state «le belle lettere, la filosofia morale e naturale, la storia sacra e profana, la teologia dommatica et i canoni, le scienze matematiche, et in ispecie la geografia, i documenti antichi, le medaglie, la giurisprudenza, il duello e le materie cavalleresche, tutte vestite alla foggia accademica lungi dalle forme scolastiche».

A una più puntuale organizzazione, con l’articolazione dei soci in ordinari, supernumerarii e onorari e con la previsione di tre Classi, composta ciascuna da 16 soci, si giungeva con la nuova redazione statutaria del 1793, che prevedeva, inoltre, che le «memorie …o componimenti … se saranno giudicate degne di stampa… saranno date alla luce a spese dell’Accademia col nome di Atti della R. Accademia Peloritana».

I successivi regolamenti del dicembre del 1826 e del gennaio del 1827 individuavano, all’interno del cenacolo, quattro distinte Classi: «la prima detta delle scienze fisiche, che abbraccia le scienze naturali e le scienze esatte. La seconda detta della legislazione, che comprende le scienze morali e politiche. La terza detta della morale sperimentale, che racchiude la storia e tutte le altre scienze che servono di corredo a questa. La quarta finalmente delle belle lettere e belle arti, in cui entrano la poesia, l’eloquenza, l’architettura, la musica ecc.». La creazione delle Classi imponeva, inevitabilmente, ulteriori modifiche all’originaria struttura dell’istituzione. Se, infatti, l’Accademia si dotava di un Presidente, di un Vicepresidente e di un Segretario generale, ciascuna Classe avrebbe avuto, a partire da quel momento, un direttore, un vicedirettore e un segretario e si operava una distinzione fra sessioni di Classe e assemblea generale.

Il secolo XIX si chiudeva con un’ulteriore e più corposa redazione statutaria approvata nell’aprile del 1889, che meglio precisava l’articolazione delle quattro Classi (I. di scienze fisiche, naturali e matematiche, II di scienze giuridiche e sociali, III di scienze storiche e filologiche, IV di lettere e filosofia, la quale comprendeva anche una sezione di belle arti). Si prevedeva altresì obbligatoriamente la residenza a Messina dei soci ordinari, nonché la presenza di un bibliotecario, la cui carica era quinquennale e di un economo, che sostituiva il cassiere previsto nei precedenti statuti.

Suddivisi in sei capi (Costituzione dell’Accademia, Dignitari e loro elezione, Delle adunanze, Elezione dei soci e loro doveri. Atti Accademici, Biblioteca, Amministrazione e disciplina) per un totale di complessivi 62 articoli (comprese le disposizioni transitorie), gli Statuti del 1889 si possono considerare un testo "moderno", espressione di un cenacolo culturale che, orgoglioso della propria storia e delle proprie tradizioni, si apprestava ad affrontare le sfide del nuovo secolo.

 

 

Ludovico Antonio Muratori

2. Note su alcuni «Periclitantes» e sui loro «Discorsi» (secc. XVIII-XIX)

di Mariaconcetta Basile

 

a. I due volumi di Discorsi accademici custoditi presso la Biblioteca del Museo Regionale.

 

Per chiarire meglio il ruolo svolto dall'Accademia Peloritana dei Pericolanti nel contesto cittadino fra la metà del Settecento e gli inizi dell'Ottocento, risulta di particolare importanza l'analisi dei contenuti di due volumi superstiti di Discorsi accademici, conservati presso la Biblioteca del Museo Regionale di Messina, che costituiscono l'unica testimonianza della vita accademica di quegli anni, avendo i vari eventi, e in particolare quelli bellici, così come i terremoti (e segnatamente quello del 1908), causato la perdita anche di gran parte del materiale documentario riguardante le attività accademiche.

È stato osservato che l'Accademia Peloritana dei Pericolanti, già a metà Settecento, «era venuta in fama non solo nell'isola, ma benanco in altre più lontane contrade: dappertutto riceveva prove non dubbie di stima e di simpatia». Tuttavia, «mantenutasi con lustro e decoro per lo spazio di 16 anni», a seguito della peste del 1743, nella quale morivano ben 63 accademici, compreso il fondatore, Paolo Aglioti, il sodalizio «viveva una vita assai stentata». Il cenacolo riapriva i battenti tre anni dopo l’epidemia, il 17 agosto 1746, con l'orazione di Diego Luigi Piccolo, dal titolo, forse non casuale, Lo studio delle belle lettere come sollievo del savio nelle sue disgrazie. All'inaugurazione faceva seguito una solenne cerimonia alla presenza dell'Arcivescovo della Diocesi Tommaso Moncada, del Governatore e del Senato della città, «mercé gli sforzi de' pochi sopravvissuti, e specialmente per le zelanti cure di Domenico Alliata Di Giovanni principe di Villafranca, di Nicolò Maria Atanasio Ciampoli, dell'Abate Giovanni Giorlando, del P. M. Giuseppe Maria Ermanno, di Mario Gaetano Aglioti, del dottor Giovanni La Bruto, del canonico Placido Piccolo e del Principe di Sperlinga D. Giovanni Natoli e Ruffo d'Alifia».

Dai Discorsi accademici risulta, non a caso, un “silenzio” che, a partire dal 1737, anno della Dissertazione sulla natura del fuoco sottorraneo, del dottor Pietro Di Blasi, si protrae fino al 1747, che s’inaugura con il Discorso intorno all'origine del metropolitico chiesastico diritto, di autore anonimo. Dopo il funesto evento della pestilenza, un apporto fondamentale per la «restaurazione del sodalizio» era quello di Andrea Gallo, già fondatore, nel 1761 «con fini prettamente scientifici» dell’Accademia dei Riparatori, e che, a partire dal 1766, assumeva la carica di pro segretario e censore perpetuo dei Periclitantes.  Lentamente l’Accademia tornava all’antico prestigio e se ne può trovare un indizio nella circostanza che, con decreto del 6 dicembre del 1766, i Calatini di Caltagirone richiedevano l’aggregazione alla Peloritana, mentre nel 1767, il Senato di Messina, che annualmente versava un canone di cento onze ai Padri Gesuiti per le attività di insegnamento, in seguito all’espulsione di questi dal Regno decretata da Ferdinando IV, ne destinava quaranta ai Pericolanti per adempiere i propri fini culturali.

Un arresto dell'attività accademica si sarebbe verificato successivamente al terremoto del 1783, attestato peraltro nei Discorsi, che registrano un vuoto fino al 1787.

Con un dispaccio del 25 febbraio 1792 Ferdinando III di Borbone, «vedendone il Governo i buoni frutti», assegnava una rendita annua all’Accademia sul Tesoro dello Stato, «da qui una nuova spinta agli Accademici di coltivare maggiormente la patria storia».  In conformità a tale inversione di tendenza, i Periclitantes iniziavano a pubblicare un Giornale di Letteratura, scienza ed arti e a bandire concorsi tra gli accademici sopra temi di particolare interesse.

 

b. Le regole sulle dissertazioni fissate negli Statuti del 1729 e del 1793.

 

Attraverso la disamina dei due volumi di Discorsi pervenutici è stato possibile ricostruire (almeno in una certa qual misura) il clima culturale della Messina settecentesca, contestualmente al ruolo e agli scopi che l'Accademia si proponeva tra la metà del XVIII secolo e l’inizio del successivo. In particolare, le materie d'interesse peculiare da trattare erano quelle fissate dagli Statuti del 1729 e confermate dai successivi, che prevedevano di «discorrersi di ciò che apparteneva alla Nostra Patria Messina, e alli suoi territori e marina, quindi di ciò che rendeva chiara l'isola tutta di Sicilia, e finalmente di materie universali» (art. 20).  Argomenti di genere assai vario, stabiliti nell'art. 7, e compresi tra «le Belle Lettere, la Filosofia Morale, e Naturale, la Storia Sacra e Profana, la Teologia Dogmatica, et i Canoni, le Scienze Matematiche, et in specie la Geografia, i documenti antichi, le medaglie, la Giurisprudenza, il Duello, e le Materie Cavalleresche; tutte vestite alla foggia Accademica lungi dalle forme scolastiche». Le attività dell'Accademia si articolavano in riunioni ordinarie e straordinarie, nel corso delle quali si prevedevano dissertazioni di carattere generale e commemorazioni tenute in ricordo o in occasione di eventi storico-politici importanti per il Regno o per la Città.

La riforma degli Statuti del 9 dicembre del 1793 non mutava, a tal proposito, le antiche norme, prevedendo la trattazione di argomenti di dottrina e pubblica utilità nelle tre riunioni annuali straordinarie. In particolare si stabiliva che scopo primario del sodalizio fosse quello «d'illustrare i pregi della nostra Patria, e di promuoverne i vantaggi» (art. II). I lavori degli accademici si concretizzavano così nelle belle lettere ed antichità sacre e profane, nelle scienze fisiche e nelle scienze economico politiche (art. III).

L'Accademia, peraltro, non «mancò d'indire de' periodici concorsi intorno ad argomenti di pubblico interesse, rimeritando il miglior lavoro con una medaglia d'oro, ed anco con incoraggiamenti pecuniari», con la lettura nelle pubbliche adunanze (art. XII), assumendosi l’onere finanziario di stampare quei lavori negli Atti (art. XIII).

Dalla documentazione pervenutaci sembrerebbe tuttavia potersi evincere che, malgrado le buone intenzioni, l'iniziativa messinese non riuscisse a coinvolgere nel progetto altre istituzioni dell'isola ma si ponesse, piuttosto, quale fenomeno circoscritto alla sola realtà peloritana, espressione di chiusura provinciale e municipalistica e di immobilismo sociale e politico.

 

c. Di alcuni Accademici Pericolanti fra  XVIII e XIX secolo.

 

Le notizie sugli autori dei Discorsi accademici sono esigue e molte di quelle orazioni risultano anonime.

Se dall'analisi degli articoli dello Statuto del 1793 emerge la necessità del cenacolo peloritano di coinvolgere nuovi personaggi nelle discussioni e nei concorsi, in un periodo in cui, non a caso, la sua vita procedeva stentatamente, lo studio dei Discorsi accademici palesa, invece, la difficoltà di animare nuovi dibattiti. Le personalità di primo piano, colte e rappresentative delle più importanti famiglie messinesi, erano poche e più interessate a mantenere vecchi equilibri sociali che a teorizzarne di nuovi. Si richiedeva, quindi, l'ingresso di personaggi diversi che dessero al sodalizio una nuova impronta politica e culturale, senza tuttavia sconvolgerne gli equilibri sociali preesistenti.

Alla cosiddetta “vecchia guardia” dei soci accademici appartenevano illustri personaggi provenienti da nobili famiglie messinesi. Solo per citare i nomi più significativi, possiamo ricordare Francesco Arrosto, futuro professore di chimica dell'Accademia Carolina; Domenico Benedetto Balsamo,  proveniente dall'illustre famiglia patrizia dei principi di Castellaci, che insegnava teologia presso l'Accademia Carolina insieme con Alberto Corrao; Letterio Fenga buon giurista, giudice delle prime appellazioni, assessore della Gran Corte Arcivescovile e maestro notaro della Portolania di Messina; Ottavio Saccano Nicolaci anch'egli giureconsulto ed esperto conoscitore del diritto romano; Carmelo La Farina cancelliere archivario del Municipio della città, giudice della Gran Corte Criminale, nonché professore di geometria e trigonometria presso la Regia Accademia Carolina; Giuseppe Romeo, discendente da un'antica e nobile famiglia veronese,  console di terra e di mare.

La vita dell'Accademia di quegli anni ruotava però, in particolare, intorno alla figura di Andrea Gallo, unico figlio del celebre annalista Caio Domenico, «uomo di vasta dottrina», cui «eran familiari le Belle Lettere, la Storia patria, l'Archeologia, la Numismatica, le Scienze naturali, la Filosofia, la Giurisprudenza, le Matematiche, e varie lingue antiche e moderne».

Alla “nuova guardia”, o aspirante tale, apparteneva, per lo più, il ceto ecclesiastico. Si distinguevano: Ignazio Bonaccorso e Marino Salvatore, entrambi parroci, ed i sacerdoti Nicola Corrao e Antonio Visco, che contribuirono ad arricchire i discorsi sulla tradizione della Sacra Lettera della Vergine Maria ai Messinesi, sulla Passione e morte di Gesù Cristo e «su la maniera di come debba osservarsi la santità delle Feste, e quali occupazioni possonsi permettere per evitate i disordini dell'oziosità».

Si trattava, nel complesso, di personaggi aggregati sulla base di rapporti personali o di convenienze politiche, di soci a mero titolo onorifico che, di fatto, restringevano la rosa di coloro che potevano arrecare un effettivo contributo all'attività culturale stessa dell'Accademica, laddove l'apertura a personaggi esterni, per lo più noti ecclesiastici, appariva necessaria per acquisire consensi e convalidare un antico status sociale.

 

1. Sulle orme di Muratori. Riflessi del riformismo settecentesco nell’orazione su «La necessità di un nuovo codice di leggi» (1788) del socio Nunzio Minasi.

di Carmen TRIMARCHI

 

a. Nunzio Minasi, un convinto assertore delle riforme in campo giuridico.

 

Fra i più significativi scritti prodotti all’interno dell’Accademia Peloritana nel corso del XVIII secolo è, certamente, La necessità di un nuovo codice di leggi, un’orazione presentata, nel 1788, dall’abate Nunzio Minasi ai soci del sodalizio.

Non conosciamo molto di Nunzio Minasi, ci sono ignoti persino i dati biografici essenziali quali le date e luoghi di nascita e di morte o gli studi seguiti; i suoi scritti e le esigue notizie in nostro possesso sono però sufficienti per far emergere un personaggio brillante, un protagonista della vita culturale e politica della città dello Stretto. Sappiamo che il dotto abate nutriva un sicuro interesse nei confronti di alcune tematiche evidenziate dalla cultura politico-giuridica del suo tempo; risalgono, infatti, al 1777 e al 1804 due orazioni recitate sempre all’Accademia Peloritana e intitolate, rispettivamente, Discorso morale politico nel quale si esamina il lusso per il rapporto che ha alle diverse forme de’ governi e Discorso sulle sorgenti della pubblica mendicità della nostra Patria, e sui mezzi per prevenirla e ripararla. Come si evince dagli argomenti scelti, al Minasi piaceva occuparsi delle “cose della politica”; una passione che gli avrebbe procurato qualche serio problema con l’occhiuta polizia borbonica. Negli Annali della città di Messina, Giuseppe Oliva narra infatti che, nel 1808, il nostro Autore era stato fatto oggetto di una denuncia anonima, rimanendo vittima della repressione organizzata dal governatore Giuseppe Artale, e fa riferimento a un discorso, dai toni liberali e patriottici, da lui pronunciato il 31 maggio del 1813, nel corso di una seduta consiliare. Sappiamo, peraltro, che il Minasi era, insieme a Andrea Gallo, un fratello muratore appartenente alla loggia “della Riconciliazione”

La circostanza che i due illustri cittadini messinesi fossero di estrazione borghese testimonia come, nel secondo Settecento, la massoneria siciliana (come, del resto, quella europea) cominciasse a veicolare nuovi valori sociali, affiancando ai tradizionali valori connessi alla società feudale, come quelli relativi alla nobiltà di nascita, altri d’ispirazione “borghese”, connessi con le capacità individuali. Tutto questo trovava terreno particolarmente fertile in una città a “vocazione borghese” come Messina, i cui abitanti avevano fondato le loro fortune sui traffici e sui commerci, sviluppando nel corso dei secoli un’identità forte, attorno alla quale erano andate intrecciandosi le istanze di autogoverno delle élites dirigenti e l’inclinazione mercantile e marittima dei suoi ceti produttivi.

 

b. L’orazione su La necessità di un nuovo codice di leggi.

 

 Tornando a La necessità di un nuovo codice di leggi, scopo precipuo di Minasi era quello di dimostrare che «per rilevar l’umanità dalli guai che l’opprimono, era necessario avere un Codice di leggi chiaro, preciso, senza la menoma ambiguità nell’espressioni alla portata d’esser capito da tutti i cittadini, fondato nella raggione, e che avesse riguardo alli costumi del secolo presente».

Coerentemente, la dissertazione affrontava alcune delle tematiche care all’Illuminismo giuridico della seconda metà del XVIII secolo, quali la polemica antiromanistica e antigiurisprudenziale e la teorizzazione di un diritto certo, chiaro che, derivato dall’opera di un legislatore virtuoso e disposto a lasciarsi guidare da filosofi, non necessitasse d’interpretazione alcuna e potesse essere esposto in un unico libro. A parere dell’Autore, la «diversità delle leggi fatte per li diversi bisogni della Repubblica in tempi differenti, ne’ quali ne la lingua ne i costumi della nazione sono stati li medesimi; furono il motivo dell’oscurità della leggislazione, che bisognò sottometterla all’interpretazione per essere rischiarata; le leggi che prima avevano un senso chiaro, preciso, e stabile, cominciarono a farsi equivoche, oscure, arbitrarie, quindi senza autorità e senza energia, che intieramente fù assorbita dall’interpretazioni per cui l’autori di esse s’impadronirono del popolo. L’effetto dell’oscurità delle leggi é la loro vanità, e far tutto dipendere dall’arbitrio di chi è investito della facoltà d’interpretarle». Così, per restituire certezza alle leggi, il «principe … servendosi del lavoro dei «veri filosofi conoscitori del cuore umano», può e deve «stabilire nuove leggi proporzionate alle circostanze de’ suoi sudditi», raccolte in nuovo codice e «ridotte nella lingua volgare».

Per meglio comprendere il senso di queste affermazioni, è necessario ricordare come, alla fine del Settecento, il diritto romano fosse ancora la normativa comune e la superiore ratio iuris dalla quale una miriade di ordinamenti, differenti dallo Stato ma interni ad esso, riceveva la gran parte del proprio diritto positivo. Col graduale accentrarsi in senso assolutistico di monarchie e principati prendevano vita ideologie che, volte a legittimare il governo assolutistico, guardavano con grande ostilità alla tradizionale pluralità delle fonti e alla loro gestione giurisprudenziale: compariva l’idea del diritto quale legge della Nazione e dello Stato quale sua unica fonte.

Lungo i secoli XVII e XVIII, l’atteggiamento di governi e “pensatori” diventava sempre più antigiurisprudenziale. Emblematiche, in questo senso, le considerazioni espresse da Ludovico Antonio Muratori che riflettevano le opinioni e le tendenze ideologiche più diffuse della cultura immediatamente preilluministica; le riflessioni dello studioso modenese sui Difetti della giurisprudenza rappresentano infatti, in buona sostanza, la summa di tutte le idee che tra il Cinquecento e il Settecento si erano sviluppate intorno ai diversi tentativi di riorganizzazione del diritto. Così, l’autorità mediatrice del ceto dei giuristi, sino a quel momento ritenuta indispensabile, veniva adesso posta in discussione e le opinioni dottrinali, piuttosto che “certezze giuridiche”, quali erano state sempre considerate, apparivano solo delle arbitrarie opinioni di privati; il diritto comune veniva descritto come una fonte di insanabili liti sulle quali avvocati e giudici, talvolta poco specchiati, fondavano le proprie fortune e divenivano sempre più aspre le polemiche nei confronti del diritto romano.

Anche nell’orazione di Minasi, le leggi di Giustiniano non sono «regole per dirigere la società», bensì «l’enigma proposto dalla sfinge alli Tebani e nella di cui interpretazione si segnalò Edipo» «un gergo oscurissimo; enigma impercettibile che richiede tutta l’arte de’ Maghi Orientali» e i danni che la «devozione e l’ossequio di tante nazioni per il diritto romano» apportano alla collettività sono talmente gravi da spingere il nostro Autore a «sospettare di qualche congiura contro dell’umanità per giocarsi della sua sorte, e farla servire alli particolari disegni».

 

c. L’abate Minasi e l’Illuminismo giuridico.

 

Sarebbe toccato a quelle dottrine componenti il complesso universo denominato “Illuminismo giuridico”, il compito di teorizzare l’urgenza di una radicale riorganizzazione, anzi di una vera rifondazione dell’ordine giuridico ricevuto in eredità dal Medioevo e adesso non più adeguato a rispondere alle richieste di una società in fase di profonde trasformazioni. Ed era fra le “rovine” di questa società, che cominciava a farsi strada il modello di un codice semplice, chiaro, pensato come corpo organizzato di leggi organico e coerente, cui si attribuiva il compito di ordinare e rendere intellegibile un sistema normativo che l’illuminista ed accademico par excellence Pietro Verri non esitava a definire “gotico e deforme”.

L’idea di un codice in senso moderno (un sistema di una certa branca del diritto completo e non eterointegrabile diretto ad un soggetto unico di diritto), si sarebbe affermata, però, soltanto dopo la rivoluzione francese (codice penale del 1791) e avrebbe trovato nei codici napoleonici la sua prima grande espressione.

Seppur con tratti peculiari, gli argomenti relativi alla necessità di una razionalizzazione del diritto vigente, erano condivisi anche dalla cultura giuridica siciliana. Il Minasi si poneva sulla scia di quelle proposizioni, mostrando di condividere un processo di modernizzazione collegato all’assolutismo illuminato. Denunciando chiare influenze montesquieiane, il nostro Autore afferma, infatti, che una legge deve essere certa, «chiara, e proporzionata all’intelligenza di chi si deve con la medesima regolare», adatta agli usi e costumi della nazione.

L’orazione risulta peraltro arricchita da vari aneddoti ambientati in paesi esotici. Uomo del suo tempo, l’Abate sembra scoprire nelle civiltà lontane una “lezione di relativismo”, si interroga e si incuriosisce sugli usi e i costumi di quelle culture ma, perfettamente in linea con quanto annota Daniel Roche, a proposito della “visione illuminista del viaggio”, quei confronti, lungi dal mettere in discussione i valori della società occidentale, sembrano fatti apposta per esaltarne la presunta superiorità. Avviandosi alla conclusione, il Minasi non mancava di dedicare qualche osservazione alle istituzioni giudiziarie del suo tempo, sottolineando l’arretratezza della procedura criminale e civile. Se per la prima non azzarda alcuna ipotesi di riforma, poiché l’esaustiva pubblicazione dell’ opera di Cesare Beccaria rendeva superflua ogni ulteriore riflessione sull’argomento, riguardo la seconda lamentava che essa era diventata una mera «collezzione di formule barbare proprie a prolongare le liti, che a rintracciare la verità, più acconcie a fomentare le turbolenze, a frastornare la giustizia, che a garantirla, le di cui conseguenze sono la ruina delle famiglie, ed il disturbo delle società».

Si trattava, insomma, di un sistema assolutamente inadeguato al mantenimento dell’ordine pubblico che invece necessitava di «una procedura più brieve, più regolata, niente misteriosa e arcana, che avesse riguardo soltanto alla sostanza, e non alle parole dovesse sostituirsi all’inviluppata, prolissa, e superstiziosa che oggi è in prattica», nel segno di una semplificazione e di una razionalizzazione richieste a gran voce dal riformismo settecentesco, cui il cenacolo messinese, attraverso l’orazione del socio Minasi, mostrava, in qualche  misura, di prendere parte.

4. Accademia Peloritana dei Pericolanti e Università degli Studi a Messina fra Otto e Novecento

di Patrizia DE SALVO

 

a. Università e Accademia: due facce di una stessa medaglia.

 

Ripercorrere le tappe più significative della storia ottocentesca dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti significa evidenziare lo stretto rapporto esistente, nella seconda metà del secolo XIX, tra le due più importanti istituzioni culturali messinesi, ovvero l’Ateneo e il sodalizio settecentesco. Non è un caso che, sin dal 1838, proprio in occasione della rifondazione borbonica dell’Università, emergesse la volontà di riproporre l’antico legame tra la Città, l’Ateneo e le accademie, delle quali la Peloritana era l’unica ad essere rimasta in vita. L’inaugurazione dei corsi dell’Ateneo era celebrata, infatti, con due distinte solenni “orazioni”, una letta dal professore di eloquenza Mauro Granata, nei locali della biblioteca universitaria, l’altra pronunciata, nella Gran Galleria del Palazzo del Comune, dall’accademico Domenico Ventimiglia.

Il legame era rinsaldato, nel corso degli anni, non solo dalla presenza di numerosi docenti tra gli accademici ma anche dalla localizzazione della stessa Accademia. Nel 1846, infatti, il sodalizio lasciava le sale del Palazzo Municipale presso il quale era stato ospitato fino a quel momento, per trasferirsi in «un bellissimo fabbricato attiguo alla Regia Università degli Studi», e diversi anni più tardi, nel 1884, la sede dell’Accademia avrebbe trovato collocazione «in altro locale più ampio e conveniente nel piano sottostante», donato proprio dalla Regia Università.

Durante la rivoluzione del 1848, il cenacolo seguiva le sorti dell’Ateneo che, a soli dieci anni dalla riapertura, veniva chiuso. L’identificazione quasi totale tra i soci dell’Accademia e i nomi di spicco del corpo docente universitario dimostra lo stretto legame tra le due istituzioni culturali, diventate il centro di elaborazione e diffusione d’idee e sentimenti antiborbonici.

Se si scorrono i nomi degli intellettuali messinesi legati alle molteplici iniziative antigovernative, si nota subito come essi appartengano al corpo accademico e universitario. Tra questi, gli uomini della famiglia La Farina, ad esempio, tutti legati all’Accademia e all’Ateneo: Carmelo La Farina, professore di geometria e socio dei Periclitantes, deputato al Parlamento siciliano nel 1848, perseguitato e arrestato, nel 1850 perdeva l’incarico, in seguito ad una denuncia, a causa delle sue idee politiche. Silvestro, il figlio maggiore, anch’egli docente di geometria e accademico, sospettato di attività eversive veniva incarcerato.  L’altro figlio, Giuseppe, accademico, laureato in giurisprudenza, guidava i suoi colleghi contro i Borbone; Giuseppe Natoli, docente di diritto civile e accademico, sarà ministro della pubblica istruzione del Regni d’Italia, tra il 1864 ed il 1865; Luigi Pellegrino, accademico della prima classe e docente universitario, sarà deputato al parlamento nazionale e Francesco Todaro docente e accademico siederà nel Senato del Regno.

L’Ateneo, chiuso in realtà solo per due anni, era soggetto, alla sua riapertura, a norme limitative talmente stringenti da giungere al collasso e anche l’attività dell’Accademia riprendeva lentamente nel 1852 ma, a causa della censura borbonica, gli incontri erano limitati alle riunioni annuali, in cui si commemorava la nascita del sovrano, e cui prendevano parte solo le autorità militari e civili, mentre il “discorso” inaugurale era tenuto quasi sempre da un “non messinese”.

I rapporti sempre più stretti tra le due istituzioni si manifestavano anche in occasione dei gravi lutti dovuti all’epidemia di colera che colpiva, nel 1854, un terzo della popolazione cittadina e decimava anche buona parte dei soci dell’Accademia e del corpo docente dell’Ateneo. La commemorazione per la perdita degli illustri soci si teneva, infatti, nella tornata straordinaria del 2 febbraio 1855, nella grande sala della Biblioteca Universitaria scelta appositamente per l’occasione.

Le sorti delle due istituzioni continuavano su vie parallele, spesso intersecandosi con le vicende politiche che caratterizzavano gli ultimi anni del dominio borbonico. Sin dal 1854, quando il governo allentava, in qualche modo, la severità della censura sulle opere scientifiche e letterarie, riprendeva alacremente l’attività del sodalizio e ai vecchi soci si aggiungevano i giovani che si erano formati nelle redazioni dei giornali antigovernativi, e che rappresentavano il futuro dell’intellettualità cittadina. Tra questi spiccavano i nomi di quanti avrebbero, qualche anno più tardi, reso illustre Messina nel campo della cultura giuridica nazionale, come, solo per citarne alcuni, Domenico Ruggeri, Giovanni Pirrotta, Paolo La Spada, Giuseppe Sergi, Giacomo Macrì.

Il processo di unificazione nazionale portava nuova linfa e vitalità nel panorama culturale della città e a dimostrazione del dinamismo dell’ambiente intellettuale, alle riviste giuridiche edite nei primi anni sessanta, che si sommavano alle già presenti raccolte di giurisprudenza e ai notiziari forensi, si affiancavano anche le prime pubblicazioni dell’Accademia. Nel 1863, infatti, veniva edito, grazie all’impegno del Segretario Generale Antonio Catara-Lettieri, il Giornale di Scienze, Lettere e Belle Arti della Reale Accademia Peloritana, al quale collaboravano, per la prima volta, sia i soci ordinari che i corrispondenti. Nei numerosi fascicoli pubblicati dalla metà del 1863 e fino a tutto il 1865, iniziavano a trovare spazio, ad esempio, le prime valutazioni di Giacomo Macrì sulla nuova realtà nazionale che l’unificazione del Regno imponeva alla riflessione degli intellettuali italiani.

Gli Atti dell’Accademia erano espressione del fortunato sodalizio esistente, in particolare, tra avvocati e professori universitari, tra cui ricordiamo Francesco Perroni Paladini, Letterio Gatto Cucinotta, Domenico Ruggeri, Salvatore Buscemi, Francesco Faranda. Non era un caso che il primo volume di Atti, oltre a contenere i lavori della tornata generale straordinaria del 24 febbraio 1878, in onore di Vittorio Emanuele II, conteneva, nella Sezione Seconda – Legislazione, un lungo e accurato studio critico di Domenico Ruggeri Sul nuovo progetto di Codice Commerciale, a dimostrazione di quanto l’Accademia fosse sensibile e vicina ai temi proposti in quegli anni dalla cultura giuridica nazionale.

Attraverso la pubblicazione degli Atti, l’Accademia poteva sottolineare il valore dei soci «la maggior parte de’ quali onorano col loro sapere la scienza e la letteratura, non che la Cattedra, il Foro ed il Sacerdozio».

Esponenti di spicco delle «nuove idee che hanno aperto nuovi orizzonti» in quegli anni, erano per Messina, accanto al socio Salvatore Buscemi, i professori Ferdinando Puglia socio ordinario della classe 2ª Scienze giuridiche e sociali, Tommaso Cannizzaro, socio ordinario della classe 4ª Lettere, filosofia e belle arti, nonché fondatori e direttori de Il Naturalismo. Rivista mensile di scienze e lettere, periodico edito nel 1887, che dedicava ampio spazio alle tematiche legali, lette alla luce del metodo positivistico, unico metodo scientificamente valido, ad avviso dei due studiosi, perché fondato sui risultati dell’osservazione e dell’esperienza.

Appare significativo e di particolare rilievo, peraltro, la sostanziale coincidenza tra le maggiori cariche negli organi di governo delle due più importanti istituzioni cittadine. Nel 1889, infatti, il professore Giuseppe Oliva, Rettore dell’Ateneo, veniva eletto, a maggioranza dei voti, Presidente dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti, carica che avrebbe ricoperto per oltre un decennio.

 

b. Fra Otto e Novecento.

 

L’ambiente cittadino dell’ultimo quarto di secolo era percorso da motivi di profonde insoddisfazioni economiche e caratterizzato da disfunzioni ma anche da tendenze progressiste quali il positivismo e il socialismo giuridico. Non è un caso che cominciassero a circolare pubblicazioni il cui programma si fondava, ad esempio, sull’idea di una scienza del diritto supportata dagli studi sociologici e che anche sugli Atti dell’Accademia trovassero spazio tali studi, espressione di quell’importante ruolo svolto da un gruppo, sostanzialmente compatto, di docenti, accademici e professionisti, nel processo di omogeneizzazione fra cultura giuridica locale e nazionale.

Un dato, come appare evidente, da collocare nel contesto di una città, di un’Università e di un’Accademia, tutto sommato, culturalmente periferiche anche se con una vocazione nazionale, come si evince dai temi affrontati sia nelle aule universitarie sia sulle pagine delle riviste, sia nelle sale dell’Accademia. Non è da sottovalutare, infatti, che già nel 1866, Giuseppe Ziino, professore di Medicina Legale dell’Ateneo messinese, inaugurasse l’anno accademico con una prolusione dal significativo titolo Dell’indirizzo scientifico moderno, nella quale ribadiva la necessità di studiare il fenomeno storico «nelle sue particolarità». Questo tema trovava accoglienza sul finire degli anni ottanta, non solo nelle pagine delle riviste giuridiche cittadine, ma anche nelle riunioni dell’Accademia e negli Atti. Si trattava di primi approcci al nuovo metodo scientifico sul quale si sarebbero accesi serrati confronti teorici, grazie alla pubblicazione di numerosi studi medico-psicologici e giuridici.

Il dibattito nazionale sul positivismo giuridico, che cominciava negli anni ottanta ed era tutto dispiegato sostanzialmente già all’inizio dell’ultimo decennio del secolo XIX, vedeva, dunque, nonostante la ristrettezza dell’ambito provinciale, una significativa partecipazione anche degli intellettuali messinesi. Il legame fra Ateneo e Periclitantes veniva ulteriormente palesato nel 1900, in occasione delle celebrazioni per il 350° anniversario della fondazione dello Studium peloritano. A questo proposito Gaetano Oliva avrebbe ricordato:

«a questa festa intellettuale e patriottica ad un tempo associavansi tutte le classi della cittadinanza. Poteva quindi disinteressarsene l’Accademia Peloritana, che da secoli, e più in questi ultimi tempi, teneva vincoli strettissimi col nobile patrio Istituto del quale in quell’anno ricorreva la più grande solennità?».

In quell’occasione l’Accademia «che da secoli ha contribuito non poco alla cultura intellettuale del paese, e che la sua vita ha sempre sposato a quella dell’Università», offriva, all’Ateneo, un volume miscellaneo contenente sei saggi «che tendono a completare la storia del nostro Archiginnasio».

Un momento particolarmente significativo per il cenacolo messinese si profilava nel 1903, in occasione del Congresso internazionale di Storia, celebratosi a Roma, cui partecipavano alcuni soci presentando gli Indici degli Atti Accademici.

Di lì a qualche anno, le due più importanti istituzioni culturali cittadine si trovavano nuovamente accomunate nelle ingenti perdite subite in occasione del disastroso sisma che il 28 dicembre 1908 distruggeva Messina: 88 soci su 130 perdevano la vita in quell’occasione e l’Accademia «aveva avuto interamente rovinata la sua sede ….e con essa rovinati erano andati tutto il mobilio, la sua bella biblioteca, ricca di belle collezioni di Atti e Memorie delle principali società scientifiche d’Europa e d’America, i quadri, i mezzobusti che effigiavano molti socii, non che le sue carte e i registri di amministrazione, i titoli originali delle sue rendite, e perfino non le era rimasto un semplice esemplare della collezione dei già pubblicati volumi de’ suoi Atti».

Quasi a riprendere le fila di un lungo itinerario che con tenacia e impegno non si voleva considerare concluso, Gaetano Oliva, socio ordinario della 3ª Classe, Scienze storiche e filologiche, dava alle stampe, nel 1916, le sue Memorie storiche e letterarie della Reale Accademia Peloritana di Messina dal tempo della sua fondazione al presente: un lungo studio storico-critico sulla vita e l’attività dell’Accademia, volto a sottolinearne il «suo passato …glorioso» a giustificazione della pretesa di un «maggiormente glorioso …avvenire», denunciandone le criticità.  Ad avviso del socio Oliva, un sicuro elemento di debolezza dell’Accademia di quegli anni, che tentava faticosamente, al pari dell’Università messinese, di intraprendere un percorso di normalità dopo le devastazioni prodotte dal sisma e dallo scoppio della Grande Guerra, erano i Regolamenti ormai obsoleti, che limitavano di molto il numero dei soci e non determinavano in maniera soddisfacente le caratteristiche delle Classi. Mancando la competizione e gli scontri dialettici, elementi essenziali per la vita di tali associazioni, ad avviso di Oliva, le Accademie, qualunque fosse stato il loro glorioso passato, «infermano, e corrono rapidissime alla morte».

L’esigenza denunciata da Gaetano Oliva si collegava a un altro punto debole della vita del sodalizio, ovvero la mancanza di adeguati contributi finanziari per realizzare quanto previsto nei progetti di modernizzazione. Lo scarno elenco di “mezzi pecuniari” esposto nelle Memorie non lasciava dubbi sulle difficoltà cui andava incontro il cenacolo con un bilancio «appena bastevole a far fronte agli ordinari bisogni, a qualche raro e meschino incoraggiamento ai suoi soci, ed alla pubblicazione degli Atti Accademici».

Quel discorso era rivolto alle autorità cittadine con una chiara richiesta di sostegno finanziario dovuta al mutare dei tempi e delle necessità, e faceva leva proprio sulla circostanza che la maggior parte degli amministratori cittadini, Consiglieri comunali e provinciali, erano soci dell’Accademia. Un loro intervento nelle sedi adeguate avrebbe potuto riportare l’Accademia, grazie ad una conveniente rendita annua, agli antichi splendori e a riacquistare il ruolo che cominciava a perdere nell’ambito della cultura cittadina e ciò mentre il panorama nazionale mostrava evidenti segni di cambiamento.

 

Carmelo La Farina

Giuseppe La Farina

5. 1918-1945: L’Accademia Peloritana dei Pericolanti fra le due guerre

di Enza PELLERITI

 

a. Fra terremoto e dittatura, gli anni della ricostruzione.

 

Il trentennio che intercorre fra i due conflitti mondiali segna un momento di fondamentale importanza per le istituzioni culturali messinesi. Quell’arco di tempo coincide, infatti, con la fase forse più significativa della ricostruzione, non solo materiale, della città dopo il catastrofico terremoto del 1908. Non a caso l’avvocato Michele Crisafulli (professore pareggiato di diritto civile), in una conferenza tenuta in occasione della riapertura dell’Accademia, affermava che «Messina potrà dirsi risorta quando torneranno a brillare […] non solo le sue forme, ma anco il suo pensiero».

L’Accademia messinese in breve tempo risorgeva dalle ceneri e con orgoglio riprendeva la propria attività, nonostante il sisma l’avesse colpita duramente. I superstiti ritennero che il più nobile omaggio alle vittime di tale disastro fosse quello di continuarne l’opera e così due anni dopo ritornarono a riunirsi. Significativo in questo senso è il discorso del presidente Giuseppe Oliva, tenuto il 21 giugno 1910 e pubblicato l’anno successivo negli Atti dell’Accademia. In esso si esprimeva con veemenza il desiderio che l’attività scientifica, bruscamente interrotta, riprendesse presto il suo corso, affinché la nobile tradizione ereditata dai colleghi scomparsi potesse continuare a vivere «a beneficio di questa terra che ha tanto bisogno dell’opera dei suoi figli».

Se era così forte il desiderio da parte dei soci di voler ricostruire l’antico sodalizio, lo stesso non poteva dirsi per l’Ateneo, contro il ripristino del quale iniziava una energica campagna di stampa alimentata anche dallo storico Gaetano Salvemini, docente a Messina, nonché socio ordinario dell’Accademia, che nel sisma aveva perduta la propria famiglia.

Superato quel difficile contesto, che troppo da vicino ricordava le ricorrenti diatribe di fine Ottocento sull’opportunità di chiusura della locale Università degli Studi, il desiderio di reagire e di immaginare al più presto un progetto di rinascita, urbanistica, sociale e culturale della città, avrebbe indotto le autorità, sia civili che religiose, unite in una sinergia di intenti, a concentrare la propria attenzione sull’Ateneo. Fra i primi edifici a risorgere nel lento processo di ricostruzione era proprio l’Università degli Studi, la cui nuova sede, situata strategicamente nel cuore della città sulle rovine dell’antico Collegio gesuitico, veniva solennemente inaugurata nel 1927 dal rettore, il geologo Giovan Battista Rizzo.  Nel nuovo palazzo dell’Università avrebbe trovato ospitalità, in locali posti al piano terra del corpo di fabbrica centrale, l’Accademia Peloritana dei Pericolanti, unico sopravvissuto fra i numerosi sodalizi che avevano caratterizzato il panorama culturale messinese nei secoli precedenti.

 

b. Aspetti della vita dell’Accademia nei primi decenni del Novecento. I nuovi Statuti del 1928.

 

Da lì a qualche anno, però, la catastrofe della prima guerra mondiale imprimeva un’ulteriore battuta d’arresto all’opera di riorganizzazione dell’Accademia. Per esempio, il conflitto frenava la necessità avvertita dai soci di riformare lo Statuto redatto nel 1889, ormai inadeguato alle esigenze di un moderno sodalizio culturale. Se, infatti, già nella seduta del 27 gennaio del 1915, l’assemblea aveva affidato al prof. Achille Pellizzeri il compito di approntare una bozza di riforma del regolamento esistente, il nuovo ordinamento trovava attuazione solo assai più tardi, nel maggio del 1928. Molti dei soci dell’Accademia avevano, infatti, adempiuto agli obblighi militari e in generale la guerra aveva diradato le attività del sodalizio ed anche la pubblicazione degli Atti, iniziata a partire dal 1878, per merito del Segretario generale prof. Antonio Catara- Lettieri, registrava inevitabilmente delle discontinuità.

La saltuarietà degli incontri e della vita istituzionale, nonché le incerte condizioni «morali e finanziarie» dell’Accademia, venivano esposte in maniera esplicita sia dal Presidente Gaetano Vinci, che dal Segretario Generale Mario Zalla, in occasione dell’Assemblea Generale del 30 maggio del 1928. Se Vinci si limitava a sottolineare le necessità più urgenti, come  la modifica dello Statuto, il riordino delle classi e della biblioteca, la pubblicazione dei lavori, il segretario poneva principalmente l’accento sul fatto che il «bicentenario Istituto» non solo era stato dimenticato in Italia e all’estero, ma la sua esistenza, se non proprio ignorata, certamente non era presa in considerazione dalla stessa Messina, nonostante l’Accademia avesse continuato a pubblicare, dal terremoto in poi, ben sei volumi di Atti, pur se con veste dimessa e con scarsa pubblicità. Faceva presente, altresì, che l’essere ospiti in quella nuova sede, non era dovuto ad un atto di generosità, ma avveniva «in virtù d’un diritto sancito da antico contratto legale». Il riferimento è ad una permuta avvenuta a fine Ottocento fra l’Ateneo e l’Accademia: quest’ultima cedeva la propria sede attigua al palazzo dell’Università e riceveva in cambio dall’Ateneo un locale situato all’interno del Palazzo stesso.  In quell’anno entrava in vigore, dunque, il nuovo Statuto che all’art. 1 prevedeva che l’Accademia avesse per unico scopo la cultura e l’incremento delle scienze e delle lettere e delle arti. Fra le classi si istituiva quella di scienze giuridiche e sociali divisa in due sezioni (scienze giuridiche e scienze politiche, economiche e sociali). Il numero dei soci era fissato in 140, di cui 40 per la seconda classe. Le elezioni delle cariche di presidente, vice presidente, segretario generale, vice segretario generale avvenivano fra i soci ordinari a scrutinio segreto.  Le cariche avevano la durata di cinque anni, con possibilità di rielezione. Al contrario, le cariche di direttore, vice-direttori e segretari di ciascuna classe avevano la durata di tre anni. Gli articoli 24 e 25 prevedevano l’istituzione di una Commissione giudicatrice dei lavori presentati dalle rispettive classi al fine della pubblicazione di quelli negli Atti dell’Accademia. La commissione sarebbe stata presieduta dal presidente o vicepresidente dell’Accademia e ne avrebbero fatto parte il direttore e i vice direttori di ciascuna classe. Infine, sarebbe stato scelto al suo interno un direttore della pubblicazione degli Atti accademici. Le nuove disposizioni statutarie dovevano, tuttavia, conoscere soltanto una breve applicazione. Cinque anni più tardi, infatti, nell’ambito della politica culturale del regime, finalizzata all’esercizio di un più rigido controllo sulle istituzioni culturali, il Ministero dell’educazione nazionale stabiliva, con il R.D.L. del 21 settembre 1933, n. 1333 (convertito in legge il 12 gennaio 1934, n. 90) relativo anche alle Accademie, che «entro un anno dalla pubblicazione del presente decreto» sarebbero stati riesaminati i regolamenti delle accademie, degli istituti e associazioni di scienze, lettere ed arti italiane. Tutti questi enti sottoposti a tutela o vigilanza dello Stato si sarebbero dovuti coordinare fra loro, allo scopo di coordinare l’attività, «di renderne, ove occorra, più efficace il funzionamento e di adeguare sempre più i fini degli istituti di cultura in genere» al nuovo clima ideologico e politico. Si disponeva poi che la riforma degli statuti e regolamenti sarebbe stata effettuata con regio decreto emanato su proposta del ministro dell’educazione nazionale, sentito il parere del Consiglio di Stato. Per questo motivo veniva nominata una Commissione centrale per dare esecuzione alla revisione degli statuti e affinché essa avesse tutti gli elementi necessari per poter operare, si invitavano le accademie e le associazioni interessate a far pervenire al Ministero, entro il 15 ottobre dello stesso anno, eventuali proposte di revisione delle proprie norme statutarie e regolamentari, una esauriente relazione sull’attività svolta negli ultimi cinque anni, e infine un rendiconto completo dell’ultimo esercizio finanziario. Nelle considerazioni inviate dal Consiglio di Presidenza dell’Accademia peloritana al Ministro dell’Educazione, si evidenziavano le prestigiose attività esercitate dal sodalizio messinese sin dalla sua fondazione. Accanto al recupero della storia passata dell’Accademia e della continuità delle sue tradizioni si sottolineavano gli elementi di rottura costituiti dall’avvento del regime, a partire dai nuovi obblighi del giuramento. Si proponevano in questa prospettiva delle modifiche allo Statuto con riferimento all’unione di alcune sezioni in unica classe. Così, con riguardo alla I classe si proponeva la fusione della sezione di scienze fisiche, matematiche con quella di scienze biologiche; relativamente alla II classe, la fusione della sezione di scienze giuridiche con quella di scienze politiche e sociali; in relazione alla classe III (scienze storico-filosofiche, lettere ed arti), già divisa in due sezioni (scienze filosofiche, storiche e geografiche) e (scienze filologiche, lettere, archeologia ed arti) tornasse ad essere riservata solo ai cultori delle scienze storiche e filosofiche e ripristinando la classe IV destinandola ai cultori di scienze filologiche, lettere, archeologia e arti. Infine si proponeva l’aumento dei soci da 140 a 180, chiedendo, come requisito indispensabile per la nomina dei nuovi soci, l’iscrizione al Partito nazional Fascista.

Ottemperando al disposto dell’art. 3 della predetta legge, che sanciva l’obbligo di giuramento di fedeltà al Sovrano e al regime fascista da parte del presidente e dei membri delle accademie ed altri istituti culturali, l’articolo 16 del nuovo statuto dell’Accademia peloritana seguiva la formula di rito, sottolineando che sarebbe decaduto chi non avesse adempiuto a tale obbligo. Si obbligavano, pertanto, il presidente pro tempore e i membri delle accademie a prestare il giuramento entro due mesi dalla pubblicazione dello stesso statuto.

Le stesse sorti toccavano all’Università dove i docenti, per continuare a rimanere in servizio, avevano giurato fedeltà al regime. Anche se è da evidenziare che il prof. Giorgio Errera, chimico, docente dell’Ateneo messinese, socio dell’Accademia sino al 1908, fu uno dei dodici professori italiani che nel 1931 si rifiutò di prestare giuramento di fedeltà al fascismo. Si trattava, evidentemente, del tentativo di imbrigliare l’attività delle accademie, ma anche delle università e in generale, degli istituti di cultura, sottoponendoli a pesanti controlli, ed intervenendo laddove essi rappresentavano o potevano rappresentare pericolosi centri di dissonanza politica rispetto all’ideologia del regime.

 

c. L’Accademia e l’Università negli anni dell’occupazione anglo-americana.

 

La fine della guerra, avvenuta in Sicilia con anticipo di circa due anni rispetto al resto del Paese, a seguito dello sbarco anglo-americano sul litorale di Gela nell’estate del 1943, separava temporaneamente le vicende dell’Isola da quelle del continente.

La costituzione dell’AMGOT, cioè del governo militare alleato per i territori occupati, insediatosi sulle rovine dell’amministrazione fascista, non doveva rimanere senza conseguenze anche per l’Accademia. Difatti il Governo Militare Alleato avrebbe provveduto a insediare nelle università siciliane i cosiddetti AM professori. Sostanzialmente tali nomine rientravano nel processo di defascistizzazione dell’Università adottato dal governo militare alleato nel novembre del 1943, e relativo alla nomina di alcuni professori “straordinari” in sostituzione di altri, che per motivi bellici o perché troppo compromessi con il fascismo, erano divenuti incompatibili di fatto con il nuovo orizzonte politico e culturale. Il risultato fu la nomina di trentanove professori di ruolo distribuiti variamente fra le università siciliane. La più beneficiata fu Messina, seguita da Palermo, sede del governo militare, e infine da Catania.  Al momento del ritorno della Sicilia nel contesto dell’amministrazione italiana e quindi con il ripristino delle procedure ordinarie di reclutamento universitario, alcuni di quei docenti si sottoposero immediatamente a regolari concorsi, mentre  altri rimasero “straordinari” e prorogati sino al pensionamento.

Ancora una volta, quindi, le vicende dell’Ateneo tornavano ad intrecciarsi con quelle dell’Accademia. Difatti, gli stessi Am professori erano soci dell’Accademia, alcune adesioni addirittura risalivano anche al periodo fascista, quando vi avevano preso parte con la qualifica di libero docente. A titolo esemplificativo si possono ricordare, nel 1934, il chimico Francesco Monforte e il farmacologo Giuseppe Carbonaro; nel 1936 erano soci Francesco Basile, libero docente, incaricato di Disegno nella Regia Università di Messina e Bruno Ricca, libero docente di chimica generale. Infine, nel 1940, troviamo i giuristi Andrea Arena e Angelo Falzea. Anche se per molti si sarebbe trattato di un’adesione soltanto formale o di interesse, si può dedurre che alcune di quelle nomine avvenute negli anni del regime avessero comportato, da parte dei docenti, la prestazione della formula del giuramento davanti ai soci dell’Accademia. In ogni caso, di fatto, agli occhi degli alleati la maggior parte di quei docenti non risultava compromessa con il fascismo e ciò era considerato un requisito sufficiente per la nomina a professore straordinario da parte dell’AMGOT.

In via generale, l’Accademia Peloritana non sarebbe tuttavia sfuggita al controllo e all’epurazione da parte degli anglo-americani. Il processo di defascistizzazione, infatti, non aveva interessato solo l’Università ma anche il resto della pubblica amministrazione. Nel febbraio del 1944 su richiesta dell’AMGOT verranno dichiarati decaduti ben 36 soci ritenuti collusi con il fascismo. Nell’Assemblea Generale dei Soci, il 14 febbraio di quello stesso anno, si richiedeva la modifica di taluni articoli dello Statuto, in particolare degli artt. 11, 14, 15, e quindi sostanzialmente le cariche sociali tornavano ad essere elettive e non più di competenza del Ministro dell’Educazione Nazionale o di nomina presidenziale e si indicevano nuove elezioni. Ovviamente veniva eliminata l’imposizione del giuramento prevista dall’art. 16.

Con le modifiche apportate su sollecitazione dell’amministrazione alleata, si riformava dunque lo Statuto in un senso più «consono al nuovo clima democratico» Da lì a poco, il 23 maggio, l’Assemblea avrebbe approvato le modifiche al regolamento. La classe giuridica diveniva la terza e ridotta a ventidue unità; il numero massimo dei soci sarebbe stato portato a 100 ed aperto agli aggregati e ai corrispondenti.

Il 2 febbraio 1944 i soci confermati venivano convocati nella sede distrutta dai bombardamenti, che avevano incessantemente martoriato la città nei mesi precedenti, per prendere contatto con i nuovi amministratori e i rappresentanti del governo alleato. L’occasione era quella dell’inaugurazione del 215° anniversario dalla fondazione dell’Accademia. Il discorso di apertura veniva pronunziato dal presidente Gaetano Vinci, che se da un lato poneva l’accento sul «grave momento storico» vissuto dalla città, dall’altro esprimeva compiacimento per la presenza del colonnello Robert Gayre, non solo come rappresentante del governo alleato, ma in qualità di “collega” e studioso. L’ufficiale inglese si poteva considerare un intellettuale prestato alle istituzioni militari. Egli, infatti, consigliere per l’educazione dell’AMGOT, era professore all’Università di Oxford, Direttore dell’Istituto di Antropologia di Edimburgo, e tra l’altro, aveva assunto l’incarico di antropologia sociale presso l’Università di Palermo.  Proprio in quell’occasione lo “studioso in divisa” aveva tenuto una conferenza sulla teoria dei gruppi sanguigni. Come veniva commentato in un articolo apparso sul Notiziario di Messina, il 12 febbraio, Gayre aveva esposto le proprie idee sugli effetti benefici della mescolanza dei gruppi sanguigni nel corso dei secoli. Questo fenomeno, insieme culturale e biologico, aveva dato luogo ad un vero e proprio crogiuolo di razze ed impedito il formarsi di stirpi etnologicamente perfette. In questa teoria diveniva rilevante la secca smentita delle teorie razziste germaniche e del razzismo italiano. Nell’affollata sala dell’Accademia, in quell’occasione era presente il rettore, prof. Gaetano Martino, esponente di una nota famiglia liberale messinese e protagonista delle vicende politiche cittadine e nazionali del decennio successivo, che segnava, comunque, simbolicamente, il passaggio verso un rinnovato ordinamento democratico.

Anche il sodalizio messinese sottolineava quell’importante fase di transizione. Emblematica, in tal senso, era la prolusione del socio dell’Accademia Franco Pierandrei, dal titolo La Costituzione e il potere costituente pubblicata poi negli Atti dell’anno accademico 1945-1946.   In essa, il costituzionalista sottolineava la fine di un incubo. Dopo più di un ventennio di dittatura fascista e al termine del secondo conflitto mondiale, si potevano finalmente porre le basi per la nascita di un ordinamento democratico. Il riferimento era a una nuova costituzione redatta da un’assemblea Costituente, allo scopo, sosteneva Pierandrei, della creazione di un «governo del popolo esercitato dal popolo per il popolo». Forse non era un caso se, proprio in quel volume di Atti, con il quale si suggellava il ritorno alla “normalità”, si poteva leggere un saggio che reclamava con forza il rinnovamento delle regole e i principi della democrazia e il loro rapporto con la cultura e gli intellettuali.

L’Accademia Peloritana dei Pericolanti, ancora una volta, luogo di cultura, si faceva interprete di un comune sentire per un’Italia diversa e migliore.

 

S.A. Reale il Duca di Genova alla Reale Accademia Peloritana

6. Le vicende più recenti

di Vittoria CALABRò

 

a. Nuovo ordinamento, antiche questioni. I problemi finanziari.

 

Fra le molte problematiche che l’Accademia Peloritana avrebbe dovuto affrontare subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale si poneva in evidenza quello dei finanziamenti.

Diverse le fonti da cui, nel tempo, il sodalizio messinese avrebbe ricevuto i contributi necessari per lo svolgimento delle proprie attività: lo stato, gli enti locali, i privati cittadini, i singoli soci. Nello specifico, l’inserimento dell’Accademia tra le istituzioni culturali degne di ricevere un contributo statale era stato sancito, durante il ventennio fascista, dal Decreto Legge 21 settembre 1933, n. 1333, (convertito nella L. n. 90 del 12 gennaio 1934), che disponeva la revisione degli statuti e dei regolamenti delle accademie italiane. A seguito del passaggio dalla Monarchia alla Repubblica si era avvertita la necessità di rivedere quel provvedimento e aggiornare i contributi erogati. Con quel proposito, infatti, il 27 marzo 1948 il capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola firmava, su proposta del ministro della Pubblica Istruzione Guido Gonella e di quello per il Tesoro Gustavo Del Vecchio, il Decreto Legislativo n. 472 recante Aumento delle dotazioni a favore delle accademie e degli istituti culturali. Il sodalizio messinese non figurava, tuttavia nel lungo elenco di soggetti che, ai sensi dell’art. 1, avrebbero goduto, a partire dall’esercizio finanziario 1947-48, dei nuovi contributi statali, erogati in misura differente per diversa tipologia di ente.

Non ci è dato, tuttavia, conoscere le motivazioni di quella esclusione. A seguito di quella decisione, adottata «per fatale errore o dimenticanza … malauguratamente e certamente involontariamente», l’Accademia avrebbe ricevuto dal Ministero della Pubblica Istruzione un contributo annuo di soli due milioni di lire che, a detta del Segretario Generale Giovanni Carini, era «assolutamente insufficiente a finanziare le più elementari esigenze». Il 30 agosto 1975 la situazione sembrava sbloccarsi a seguito della firma, da parte del presidente della Repubblica Giovanni Leone, del DPR n. 635 (Norme di attuazione dello statuto della Regione Siciliana in materia di accademie e biblioteche), un provvedimento che dagli accademici messinesi era considerato foriero del tanto agognato incremento dei finanziamenti. Il sodalizio peloritano era tuttavia destinato a rimanere profondamente deluso considerata l’esiguità del contributo annuo corrisposto (L. 1.000.000).  Il problema finanziario veniva in qualche modo risolto dall’Ateneo, il cui Consiglio di Amministrazione, per quell’anno, aveva deliberato di stanziare un contributo straordinario.

Nella seduta del 18 febbraio 1978 l’Assemblea Generale approvava una mozione indirizzata al Governo regionale con cui chiedeva di istituzionalizzare il finanziamento a beneficio dell’Accademia. Il 16 gennaio dell’anno successivo, il nuovo Assessore regionale ai Beni culturali, ambientali e alla pubblica istruzione, il democristiano messinese Luciano Ordile, che avrebbe ricoperto quella carica quasi ininterrottamente dal 1978 al 1985, indirizzava una lettera al Presidente del sodalizio, il fisiologo Gaetano Livrea, assicurando il suo interessamento «in occasione di prossime iniziative legislative». A partire dal 1981 l’Accademia veniva, finalmente, annoverata fra gli enti di alta cultura della Regione, degna di ricevere un contributo stabile. Per quell’anno, infatti, avrebbe ricevuto quindici milioni di lire dalla Regione Siciliana, trenta milioni di lire dal Consiglio di Amministrazione dell’Ateneo e cinque milioni di lire dal Ministero della Pubblica Istruzione.

Altre buone notizie sul fronte dei finanziamenti arrivavano nel 1984 quando, in data 8 agosto, il Ministero per i Beni Culturali comunicava al Presidente Guglielmo Stagno d’Alcontres che l’Accademia era stata inserita fra le istituzioni culturali ammesse, per il triennio 1984-86, a ricevere un contributo ordinario annuo pari a quaranta milioni di lire. I tempi bui sembravano allontanarsi per sempre.

A metà degli anni Novanta del secolo scorso, tuttavia, consistenti nubi tornavano ad addensarsi all’orizzonte: a causa della non sempre regolare erogazione dei finanziamenti da parte di Ministero, della Regione e del Consiglio d’Amministrazione dell’Ateneo, l’Assemblea Generale dei soci riunitasi il 10 aprile 1996 decideva di ridurre il numero di manifestazioni in programma per l’anno accademico, prediligendo, per ovvi motivi, solo quelle che potevano essere organizzate a costo zero.

In tempi a noi vicini, anche l’Accademia Peloritana avrebbe sofferto per i tagli ai finanziamenti che avrebbero colpito, in misura differente ma comunque significativa, Università e altri enti culturali.

 

b. Le modifiche statutarie.

 

In diverse occasioni, nel lungo arco temporale compreso tra il secondo dopoguerra e i giorni nostri, l’Assemblea Generale dell’Accademia sarebbe stata chiamata ad apportare consistenti modifiche e/o piccole integrazioni allo Statuto e al Regolamento.

La necessità di procedere ad una revisione dei testi risalenti al 14 febbraio 1944 emergeva durante l’adunanza del 29 dicembre 1964 ed era caldeggiata sia dal Direttore della Classe di Scienze medico-biologiche, il patologo Luigi Carmona, che dal Segretario Generale della stessa Accademia, Letterio Cannavò. Entrambi concordavano sull’urgenza di rivedere, nello specifico, l’art. 3 dello Statuto che fissava in 100 il numero massimo complessivo dei soci ordinari: quel tetto, infatti, a loro giudizio, non era più adeguato a quello che definivano «l’incremento avutosi nella ricerca scientifica e nella istituzione di nuovi Istituti e cattedre universitarie», auspicandone, per questo motivo, un adeguato incremento. L’anno successivo la proposta di variazione, comprendente anche la richiesta di rivedere l’art. 1 del Regolamento (che ripartiva il numero dei soci ordinari fra le quattro Classi) veniva fatta propria dalla Sezione di Scienze medico-biologiche che suggeriva che alla stessa venissero «accordati n. 42 Soci ordinari in luogo dei 35 attuali». La questione della modifica dello Statuto e del Regolamento veniva finalmente risolta in occasione dell’adunanza del 15 giugno 1966. Dopo lunga e articolata discussione, infatti, l’Assemblea Generale presieduta da Gaetano Martino (che il giorno precedente era stato eletto Rettore dell’Università di Roma) stabiliva di non prevedere alcuna limitazione per i soci aggregati, corrispondenti e onorari e di elevare a 150 il numero complessivo degli ordinari che, ai sensi del nuovo art. 1 del Regolamento, risultavano così ripartiti: 27 per la Classe di Scienze fisiche, matematiche e naturali, 53 per quella di Scienze medico-biologiche, 33 per quella di Scienze giuridiche e 37 per quella di Lettere, filosofia e belle arti.

A distanza di soli tre anni da quell’importante ma circoscritta revisione, l’esigenza di un intervento più incisivo ritornava prepotentemente all’attenzione degli accademici messinesi. Era il Rettore dell’Ateneo, il giurista Salvatore Pugliatti, eletto Presidente del sodalizio il 18 novembre 1967 dopo la scomparsa di Gaetano Martino, a sottoporre all’attenzione dei soci ordinari le modifiche elaborate da un’apposita commissione nominata dal Consiglio di Presidenza allo scopo di aggiornare quei due testi normativi che, risalenti al 1944, risultavano «assolutamente inadeguati sia all’attuale regime di democrazia instaurato nel nostro Paese, sia al rapido progresso avvenuto nel costume e nel campo e metodo di studi». Si trattava, per lo più, di cambiamenti di carattere lessicale: in particolare l’intitolazione della III Classe subiva una piccola ma significativa variazione passando da Scienze giuridiche ad una più inclusiva Scienze giuridiche, economiche e politiche. La novità più importante, però, era introdotta dall’art. 11 dello Statuto e prevedeva l’istituzione, per ciascuna delle quattro Classi, della figura del Vice-Direttore, il cui compito principale era di sostituire il Direttore in caso di assenza. L’introduzione di tale carica avrebbe inciso anche sulla struttura del Consiglio di Presidenza che, integrato con le nuove unità, passava così da 13 a 17 componenti.

Sarebbe trascorso un lungo periodo prima che gli accademici tornassero nuovamente a modificare quei due testi, nonostante nell’aprile del 1975 il Presidente Pugliatti avesse incaricato il Segretario Generale Giovanni Carini e i professori Bruno Ricca e Giuseppe Catalfamo, rispettivamente Direttore della Classe di Scienze fisiche, matematiche e naturali e Vice-Direttore di quella di Lettere, filosofia e belle arti, di sottoporli ad accurato esame, aggiornandoli entrambi così come auspicato dal Consiglio di Presidenza che ne aveva evidenziato alcune lacune.

Successivi interventi di revisione venivano approntati, invece, molti anni dopo, durante la lunga presidenza del professore Guglielmo Stagno d’Alcontres che avrebbe guidato il sodalizio messinese dal 12 giugno 1984, quando veniva eletto alla carica alla scadenza del mandato di Gaetano Livrea che aveva deciso di non riproporre la propria candidatura, fino al 1995. Già nel 1986, infatti, i Soci approvavano alcune variazioni predisposte da un gruppo di lavoro costituito dal Segretario Generale, dal Bibliotecario e dal direttivo delle quattro Classi. Bisognava, tuttavia, attendere il 1992 perché si avviasse un lavoro di revisione più consistente che veniva affidato ad una commissione formata dal Presidente e dai professori Giovanni Carini (Segretario Generale dell’Accademia), Gustavo Barresi (Direttore della Classe di Scienze medico-biologiche), Vincenzo Panuccio (Direttore di quella di Scienze giuridiche,economiche e politiche), Andrea Romano (Segretario della Classe di Scienze giuridiche, economiche e politiche),

Salvatore Costanza (Bibliotecario) e Paola Colace (Vice-Bibliotecaria).

Quel lungo e complesso iter si concludeva il 15 aprile 1993, quando il nuovo Statuto e il nuovo Regolamento venivano approvati dall’Assemblea Generale. Due le principali novità. La prima avrebbe modificato la composizione del Consiglio di Presidenza che, ai sensi dell’art. 5, era integrato da Bibliotecario, Vice-Bibliotecario, Economo e Vice-Economo. La seconda, invece, era sancita dall’art. 30, che recitava: «Il Presidente dell’Accademia è di diritto il Rettore dell’Università di Messina». Tale norma finiva per disciplinare una risalente e «costante prassi seguita da molti decenni» in base alla quale, ad ogni fine mandato, l’Assemblea Generale aveva sempre eletto Presidente del sodalizio il Rettore in carica. Un principio dalla forte connotazione politica volto a rendere sempre più stretto il legame fra le due istituzioni.

Quei testi, così modificati, sarebbero rimasti in vigore fino al 7 aprile 2016, quando l’Assemblea Generale approvava le nuove versioni, ulteriormente sottoposte a lievi modifiche dall’Assemblea Generale del 13 gennaio e da quella del 27 aprile 2017.

 

c. 1979, un importante traguardo. Le celebrazioni del 250° anniversario della fondazione

 

Nel corso del 1979, ricorrendo il 250° anniversario della fondazione, l’Assemblea Generale dell’Accademia si riuniva ben tre volte per pianificare le celebrazioni di quell’importante avvenimento.

Era proprio durante la prima di quelle adunanze, convocata il 26 febbraio, che prendeva corpo l’idea di organizzare un evento celebrativo e Gaetano Livrea, Presidente dell’Accademia e Magnifico Rettore dell’Università, proponeva la costituzione di una commissione, formata dai Direttori delle quattro Classi, che ne studiasse la fattibilità e avanzasse delle proposte concrete. La manifestazione, che prevedeva anche la distribuzione di una medaglia celebrativa ed uno speciale annullo filatelico, si avviava sabato 19 aprile alle ore 9.30, nell’Aula Magna dell’Ateneo. Le tappe salienti dei duecentocinquanta anni di vita dell’Accademia venivano tratteggiate da Antonino Metro, ordinario di Diritto romano, in un’efficace relazione introduttiva, cui seguiva l’interessante contributo del professore Salvatore Boscarino, docente dell’Ateneo palermitano, il quale affrontava i problemi connessi con la conservazione ed il restauro di alcuni monumenti messinesi. I lavori proseguivano con quattro interventi dedicati all’analisi dei rilevanti apporti forniti dell’Accademia alla cultura e allo sviluppo non solo della città di Messina ma anche dell’intera Sicilia. Nello specifico, nel rispetto delle diverse anime del sodalizio peloritano, i professori Vincenzo Panuccio, Ugo Cucinotta, Girolamo Cotroneo e Bartolo Baldanza venivano chiamati a tracciare il contributo dei Pericolanti agli studi giuridico-sociali, di medicina, di filosofia e nel campo delle scienze della terra. A distanza di qualche anno vedevano la luce gli Atti di quella manifestazione: nel 1984, infatti, veniva pubblicato un volume che, oltre a raccogliere i contributi dei relatori intervenuti, conteneva anche un breve indirizzo di saluto del professore Giuseppe Gemignani, rappresentante della Accademia di Scienze lettere e arti di Modena, e un saggio della filologa Paola Colace Radici sull’apporto degli accademici messinesi allo studio delle discipline classiche.

 

d. Gli ultimi anni.

 

Le vicende più recenti dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti sono state contrassegnate da una lunga fase di stallo. Nel luglio del 2010, l’allora Rettore e Presidente del sodalizio, il neurochirurgo Francesco Tomasello, aveva aggiornato i soci presenti sullo stato di avanzamento dei lavori di ristrutturazione dell’Accademia, auspicando tempi brevi per la consegna della sede e constando, con soddisfazione, come le normali attività non avessero subito interruzioni e rallentamenti a causa dei disagi connessi con l’inagibilità dei locali. La riunione si concludeva dopo aver programmato le iniziative da svolgere nell’anno accademico, approvato il bilancio consuntivo 2009 e preventivo 2010, nominato i nuovi soci e deliberato una proposta di integrazione dell’art. 13 del Regolamento.

A partire da quella data, però, avrebbe avuto inizio un periodo decisamente anomalo nella storia del sodalizio peloritano, dal momento che l’Assemblea Generale e il Consiglio di Presidenza non sarebbero stati più convocati mentre, conclusi i lavori e restituita la sede, la consultazione del pregevole patrimonio librario dell’istituzione tornava nuovamente fruibile soltanto a partire dal 14 gennaio 2013. Una situazione inconsueta, che avrebbe influito negativamente anche sulla periodicità delle pubblicazioni degli Atti delle singole Classi, ad eccezione di quella on-line della Classe di Scienze fisiche, matematiche e naturali che continuava, invece, con regolarità prevedendo, negli anni 2011-2014, accanto ai consueti fascicoli semestrali, persino alcuni supplementi. Quella fase atipica si protraeva fino all’adunanza del 7 aprile 2016 quando l’Assemblea Generale approvava all’unanimità i bilanci 2011-2015 e il preventivo dell’anno in corso (approntati da un commissario ad acta appositamente designato dal Presidente, il professore Pietro Navarra), deliberava sulla nomina di un consistente numero di nuovi soci, procedeva all’aggiornamento dello Statuto e del Regolamento, accoglieva alcuni progetti di collaborazione con altri enti che avrebbero favorito il rilancio delle attività scientifico-culturali dell’Accademia e concordava sulla proposta avanzata dal Rettore di convocare, in tempi brevi, le singole Classi al fine di procedere alla designazione, tramite votazione, dei rispettivi Direttori, Vice-Direttori e Segretari. Operazione, quest’ultima, preliminare alla necessaria e non più differibile elezione del Consiglio di Presidenza per il quinquennio 2016-2020.

Si avviava, così, per il sodalizio messinese, un nuovo corso che metteva fine all’anomalia vissuta tra il 2011 ed il 2016, la più lunga in assoluto registrata dal secondo dopoguerra in avanti, un arco temporale di quasi settant’anni durante il quale l’Accademia avrebbe fronteggiato, e superato, come altre volte nel corso della sua plurisecolare esistenza, non poche difficoltà e problemi ma anche promosso importanti appuntamenti.

La nuova redazione statutaria, peraltro, esprime il senso del rinnovato ruolo che l’antico sodalizio viene chiamato ad assumere sia nel rapporto con l’Ateneo, sia, in particolare, con il territorio.

 

 

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